Il cielo di Sicilia
C’e silenzio sulle dune.
Le assenze del mare d’inverno
hanno spento le luci della città
e il velo lattiginoso con cui esse ogni notte
ci nascondono l’universo.
L’immensità può scacciare l’ossessione
e tutti noi, giovani o vecchi,
vedere, tra le stelle e i pianeti,
il passato, il presente e forse il futuro,
e piano piano, ricordare quale sia il nostro posto,
granelli di sabbia su una spiaggia senza fine.
A Grazia e Rob
Nero su blu
In cielo gli storni dipingono,
nero su blu,
sembrano seguire il volo
di sempre nuovi capi stormo
in coreografie liquide
e come acqua sciamano,
incuranti di ogni confine,
tra gorghi e scrosci di piume
sfiorano alberi, tetti di case
e nasi rivolti all’insù di uomini
pronti a marciare e ad alzare le mani e la voce
in nome di roboanti promesse e nuovi ideali.
II futuro vive sulle punte delle nostre dita,
il passato dorme dentro uno specchio antico
muto osservatore di tante rivolte,
ma di ben poche rivoluzioni.
Come vorrei
I neonati dormono,
semplicemente chiudono gli occhi nei loro passeggini,
un braccino di qua una gambina di là,
tra copertine graziose, orsetti paffuti, giostrine di apine,
o sbavano sulla spalla di mamme e papà,
con la testolina che ciondola e rotola di qua e di là.
Ovunque.
Davanti al più indimenticabile dei tramonti, al più straordinario dei monumenti,
proprio quando incontri quello famoso, come sognavi da tutta la vita
o quando il dolore, la pena o lo schifo si portano via il respiro e tutte le tue parole,
loro si lasciano andare e ciao,
nessuna àncora che costringa la loro prua al vento
e non importa se soffi forte e sbianchi il mare
o sia brezza leggera come mano di madre,
loro si abbandonano e si lasciano trasportare.
Nessuna ansia, nessuna frustrazione, niente fame di cose,
nessun bisogno di lasciare segni, di essere ricordati,
niente catastrofi, sensi di colpa, rimpianti
grandi amori, figli, persone care che non potrai incontrare mai più,
pare che sappiano di avere le tasche piene zeppe di tempo
e quando cala il silenzio in quegli occhioni languidi, allora addio.
Loro non sanno cosa significhi dover scalare montagne di ricordi per poterne accumulare di nuovi,
svegliarsi nel giorno in cui le cose di cuore non fanno più rima con amore,
non sanno cosa significhi avere gli armadi pieni di abiti di scena
e sentire il bisogno di continuare a disegnarne di nuovi per poi restarne delusi,
ed esserne consapevoli, ma insistere a non tenerne conto.
Io sì. E spesso e di nuovo, vorrei potermi addormentare come un neonato.
Non chiedermi più niente
Non chiedermi più se i muri
che ascoltarono le risate di voi sposi e le vostre cose segrete
mi chiedano dove siano finite le vostre voci,
o se l’asfalto del grande piazzale abbia nostalgia dei passi tuoi e dei suoi
avanti e indietro, casa lavoro, lavoro casa
o se gli amici, i vicini, i conoscenti, a volte ricordino
il tuo sorriso aperto, le tue buone parole,
i suoi silenzi spessi, il suo sorriso timido,
se insomma, ogni tanto, raccontino di voi,
perché oramai anche loro sono ombre.
Da quando ve ne siete andati con i vostri forzieri di ricordi,
ho visto i nostri di voi farsi diafani,
come la luna in cielo a mezzogiorno,
li ho visti cadere dagli alberi delle nostre vite,
leggeri come foglie avvizzite
ed è amaro e mi rattrista il sapere
che ad ogni nuova primavera tra le foglie nuove,
sempre di meno saranno quelle vostre,
perché questa è la vita e soprattutto il suo dopo, qui sulla terra.
E adesso mamma, non chiedermi più niente e lasciami dormire.
Quando finisce una estate
Furiosi, i vortici scuri
hanno divorato la luce e tutte le sue ombre,
dalle finestre entra il fresco dimenticato dei giorni grigi,
la pioggia tambureggia sulle foglie della palma,
fa rabbrividire la capelvenere,
abbevera il prato che tornerà verde,
restituisce il bruno ai campi,
rende lucidi i contorni delle cose,
apre gli ombrelli, chiude gli ombrelloni,
cancella i castelli di sabbia,
spegne il fuoco degli ultimi amori estivi,
ad uno ad uno porta via tutti i granelli di polvere
ed una estate, ormai vecchia come la mia pelle.
Ecco, è arrivato il momento di stringerti forte
e mentre i nostri vestiti cadono prendere a calci la malinconia.
La fine dei ricordi
Ho sempre amato il volo allegro
e disordinato dei piumini dei pioppi
che senza voce parlano di estate e nuova vita.
Oggi sono dappertutto, riempiono l’aria
come le ombre che rendono amari i miei pensieri.
Sarà orgoglio o vergogna?
Avrò ben in vista sul petto
le tante medaglie che io stesso vi avrò appuntato
e nascoste dentro una tasca
le mie miserie con tutto il loro peso,
ma, con l’indulgenza che ogni umano
rivolge a sé stesso, so che all’ultimo mi assolverò.
Provo invece gran pena per i ricordi che custodisco,
sempre così importanti per me,
per quella che sarà la loro fine.
So che continuerò ad accudirli finché potrò,
ma poi…
I graffi e le carezze voleranno via, vittorie e sconfitte,
tutto così unico e puff, tutto con me finito.
Forse, mi illudo, se non verranno abbattute
da un temporalino errabondo di fine aprile, sarà per le parole
che come piumini di pioppo,
corone di spine e mazzi di fiori,
escono dalla mia penna, che qualcuno mi ricorderà.
Chissà. Ma i mie ricordi, no.
Nessuno potrà.
‘Fanculo tempo e tutte le tue future estati,
che continueranno a susseguirsi
senza che nessuno possa tenerne il conto.
Frecce nel cielo
Il sole è ancora freddo sulla pelle,
il mare una ferita di fuoco tra il giorno e la notte,
nessun uccello, né cicala,
nemmeno il ronzio di un’ape
ad incrinare il coperchio di cristallo e silenzio
che l’alba ha posato sul mondo.
Sono frecce scoccate nel cielo
a rompere l’incanto,
il fruscio dell’aria tra le piume in volo
ed è già nostalgia
per questo momento di sublime bellezza appena perduto.
Poi un cane, un fagiano e,
lontani, ruote e motori,
l’ingranaggio riprende a girare
e chiama il mio nome.
Nella tela del ragno
Ieri notte sono morto.
Poi, mi hanno svegliato le cicale,
da qualche giorno hanno cacciato gli usignoli
e stamattina il loro frinire è così forte!
Entra dalla cappa del camino,
dalle fessure tra i muri e le finestre oscurate,
fende la penombra, sempre uguale, parossistico, ipnotico,
si ficca nelle orecchie come un tappo di ovatta,
come le tele di certi ragni che costruisco i loro nidi
o forse trappole mortali, nei piccoli anfratti dei muri.
E lì, prigioniera di una ragnatela cercherò di lasciare la mia paura,
quella che anche ieri notte, nessuna rivelazione ha cancellato.
E
Ci sono luoghi
e persone
e cose
e paure
e rimpianti
e sconfitte
e dolori
e fatiche
e incontri
e parole
e amici
e sogni
e traguardi
e successi
e gioie,
dietro di me
e tutti a turno vorrebbero attenzione.
E cortese
e gentile
e rispettoso,
finché c’è luce, io continuo a guardare avanti.
San Fortunato
Il caldo di un miraggio fa tremolare l’aria e l’eco dei rintocchi pigri.
Da pochi giorni le notti si sono fatte coraggio
mentre il grano è caduto e le cicale ne cantano il lutto.
Il vento gonfia le vele di nuvole maestose,
ma il sole comunque brucia, attraverso grandi finestre
spalancate su questo nostro cielo apolide e fortunato
che conosce solo le geometrie segrete degli uccelli e di aerei allegri e colorati.
Il tempo si finge fermo, ma non inganna coloro che sanno
quanto male può fare una illusione.
Azzurro
È lontano il profumo dei tigli, così forte
nell’aria di un celeste delizioso, quasi infantile
e lontani adesso, anche i passi, ambiziosi ed elastici
di giovani che senza conoscerlo, volevano cambiare il mondo
in un mondo nuovo, migliore e nostro.
Ora che la risacca dei giorni ha spazzato via quelle impronte,
con la testa fuori dal rifugio di idee, cemento e forse sapere
che negli anni ci siamo costruiti,
oltre il profilo della collina, possiamo vedere il punto
in cui l’azzurro del cielo si confonde con l’azzurro del mare
e il pensiero corre a terre lontane e meravigliose
di cui il nostro tempo non ci permetterà di godere.
Forse per consolarci, una manciata di foglie secche
ci corre incontro e ci avvolge in un abbraccio
nel vento caldo e impetuoso che oggi,
nel giorno in cui l’azzurro è il più lungo dell’anno,
alza la polvere e scompiglia le vesti, mina dogmi e certezze,
e consegna all’oblio vecchi idoli di carta.
Nel continuare il cammino, mentre tutto diventa vertigine,
anche tu sorreggimi, mia cara e preziosa compagna di viaggio,
perché io ti prenderò per mano e ti sorreggerò.
Il tempo e gli amanti
Corre il nostro tempo, corre,
si affanna dentro un piccolo mondo
rinchiuso dietro una sottile parete di vetro.
Fuori dalla finestra sento il vento scuotere le foglie,
per gli alberi così necessarie eppure degli alberi prigioniere,
libere di volare una sola volta.
Sarà anche nostro, il loro destino?
O sapremo girare le spalle al mondo dei numeri, chiudere occhi e orecchie
e prima che tutto a un tratto domani sia diventato ieri
lavare la polvere delle cose dalle nostre mani,
gettare via ogni metro e ogni matrice che ci misura.
La risposta non era dentro un biscotto della fortuna,
si trovava invece nella meridiana
che un pazzo ha spostato su un muro rivolto a nord,
nella clessidra, orfana di ogni mano
abbandonata a coprirsi di polvere sullo scaffale di una libreria
e adesso il nostro polso sinistro è leggero come quello destro.
Stanotte, mentre il tempo corre
e le nuvole, nel cielo delle stelle eterne presto scompariranno,
su questo grande letto due cuori di nuovo bambini sognano.
E allora abbracciami amore mio, per sempre qui, io e te.
Il viaggio
Appendo al rigo le mie parole ad asciugare.
Le ho cercate a lungo nei giorni di nebbia, nelle notti di plenilunio,
nella luce intensa del mattino e tra le ombre più scure della luna nuova.
Ho atteso paziente che quelle sbagliate cadessero, come foglie morte,
e nutrito quelle giuste con i dubbi e con le mie poche certezze
fino a quando mi sono sembrate perfette,
unica via perché forti e vere
potessero rivelare i colori e le forme dei miei pensieri.
Presto però, questo piccolo manipolo di lettere ordinate
perderà ogni forza, lo so, qualsiasi essa sia,
ma ugualmente lo affido, non senza timori, a questa vetrina di carta.
Pian piano le mie parole si faranno deboli,
saranno ridotte a semplici suoni,
la loro arroganza spezzata in sillabe,
faranno lo stesso rumore del battito d’ali di vespe e calabroni,
incomprensibili, come quelle sacre dei cantici e delle preghiere
spezzate dall’eco, tra i muri di una cattedrale.
Il loro destino è mischiarsi, confuse, alla babele delle lingue umane,
saranno completamente indistinguibili,
perse, nel chiacchiericcio continuo di voci
che come il vento che tùrbina nelle orecchie, isola e confonde.
Saranno sepolte per sempre con quelle dei vivi e con quelle dei morti.
Nell’epoca del trionfo dei numeri, strano bisogno appare
questa mia smania di mettere in fila parole,
comparsa ora che il treno della vita ha fatto sosta in così tante stazioni
e sento un peso gravare sul petto.
Ma per sperare di togliermi questo peso d’addosso e liberare il respiro
posso solo continuare a far su il gomitolo della mia vita,
col tempo della coscienza al centro, adorando il silenzio.
Capelli bianchi
Ho sognato di vivere un tempo non mio
in cui, ladro, rubare briciole di attimi che non ho mai vissuto.
Oggi piove e la vita, come una vecchia coperta di lana
sdrucita e fradicia d’acqua, mi pizzica la pelle.
Ma nonostante il suo odore di cane bagnato
che nessuno la tocchi, per quello che ne rimane.
Oro, comunque
che sperpero a guardia del monumento ai begli anni andati
fatto di rami spezzati e foglie cadute.
E non mi aiuta la primavera, né gli occhi nuovi
che vedranno nuove piogge cadere, alberi nuovi respirare, nuovi soli andarsene e ogni giorno tornare.
E le montagne crescere.
Lentamente,
svelando segreti nell’unica lingua che nessuno conosce.
Capirai
Sono solo, nella luce livida del televisore,
solo, nel fumo di una sigaretta,
ennesima, non ultima.
È brace e cenere, la rabbia che mi cova dentro
che monta e sale e blocca la mia lingua in questi ceppi stretti.
Amato sconosciuto, figlio mio, tu non capisci
che non mi importa niente di queste pillole maledette,
altri conforti altre attenzioni, che nulla più mi importa;
la lontananza è la tua cura
contro un dolore che è anche il mio dolore.
Cancella, nega, nascondi questo sconosciuto,
porta le mani davanti agli occhi e appena puoi, riempili,
di altri visi, di altre case, di nuova vita, nuovo futuro.
Sono solo, nel mio destino di padre.
Ma negli anfratti del tuo pensiero,
dentro i frammenti del tuo ricordo, io ti aspetto;
che batterà il martello e lo scalpello gratterà l’intonaco della tua pelle giovane
e dentro quei graffi, in quelle nuove pieghe,
giorno verrà, in cui vedrai il segno del mio sangue,
il nostro, quello stesso sangue rosso che mi sta portando via.
E capirai.
Il cielo di Tripoli
Rombo di aerei che se ne vanno.
È pieno di fiamme il cielo di Tripoli,
vorace mangia tizzoni e scintille,
e povere anime, come lanterne cinesi.
Più in alto le stelle, nella mia volta oscura,
fitte, come solo qui in Africa,
come il deserto che si fa pieno di fiori
all’elemosina di una pioggia randagia.
La mia bicicletta ho abbandonato da giorni
e la nostra casa e la mia gonna a quadretti,
ho messo in valigia solo i tanti sorrisi
nelle foto di palme e di marine assolate.
Dal suo giaciglio, dal suo sonno di profugo,
sale pesante il respiro del babbo,
io quel respiro me lo stringo addosso
perché mi manchi mamma e ti immagino,
sotto la quiete del cielo d’Italia.
Qualcuno ha frugato nel mio tesoro.
Gli anni, fottuti!, lo hanno scovato
e mi hanno rubato il tuo odore
e la tua voce che non è più un mio ricordo.
Da pochi giorni ho tagliato i capelli,
è finito il tempo della mia ribellione,
sotto di loro pensieri in bilico,
piccoli acrobati, terrorizzati dal buio.
Al centro del ventre sta di casa il dolore,
nel nome del seme, della carne e del sangue,
nessuna lama, nessun taglio preciso
può separare ciò che non può esser diviso.
Inchiostro blu e bella calligrafia
sul tuo ritratto colorato a mano,
per celebrare un ritorno Tripoli, hai scritto,
marzo millenovecentoquarantotto.
Anche tu mi manchi, mamma.
Ultima
Da quanto tempo il vento
non crea scompiglio tra i tuoi capelli
e i tuoi passi nudi
non spengono il salmodiare pigro dei grilli?
Appena fuori dal cimitero
dai rami alti di un olmo saluta una cicala
< Ascolta! Forse è l’ultima che sentiremo questa estate. >
Dentro di me, il desiderio forte, invece,
che sia il primo di una nuova stagione calda.
In alto i cuori, la vita è dolce
morire è cosa che non ci riguarda.
Ruote che girano
Dal paesino dove tutti hanno un nome, dove tutto è pesato e tutti salutano
alla città, dove tutto si immagina
alle foreste di tela dei venditori d’ombra,
al fuoco di luci che nasconde le stelle,
alle mille finestre aperte, in attesa di occhi in cerca di mare.
Il primo tuono dopo ferragosto dà una nuova mano di carte e rivela il segreto:
le pietre e i colori vecchi di secoli,
l’ultimo valzer delle foglie dei platani,
la voce del corno nelle notti di nebbia,
ma prima che il cielo ci renda le rondini, un velo di cipria lo farà scomparire
e sarà ressa, ancora una volta al botteghino della nuova stagione.
Bastavano ruote per essere libero. E rivoluzioni, di ruote che girano.
Anima bella
È pronto il patchwork dai mille colori,
di mani, di occhi, di umori e di cuori
che tu hai tessuto, in questo tempo non tempo
piangendo, accogliendo, ridendo e soffrendo.
Sarà coperta nei giorni più bui,
e per noi vessillo in quelli migliori,
sarà tepore nel freddo gennaio
e anche nuvola che ci avvicina al tuo cielo.
Ma adesso danza Anima bella,
nel tuo mantello di foglie di quercia,
con la grande gru, leggiadra e leggera
librati in alto,
sopra questo piccolo stagno.
E via,
dal guardo buio del cigno nero,
e via
dal chiacchiericcio vuoto dell’alzavola,
e via
dalla grazia crudele con cui uccide il tuffetto,
librati in alto,
riempi il cielo di gioia
e lascia cadere i tuoi semi, i tuoi doni
nelle pieghe del tempo, nelle tasche dei cari
saran germogli e poi timidi fiori,
saranno forti, ammirati e stupendi,
avranno la forza segreta degli asfodeli.
E verranno giorni più lunghi;
e soffieranno venti più miti;
e le lacrime saranno perle di luce
saranno guida, ricordo e conforto,
saranno i frutti dolcissimi e rari
che ti faranno tornare,
innocente e bellissima,
a scacciare le brume che offuscano il cuore,
a trasformare in amore il dolore
Come ti guardano gli angeli
È calda la luna stanotte,
e come tante altre notti
stanotte,
io ti guardo dormire.
Quante volte l’ho fatto
e felice ho sorriso.
La notte più lunga è finita,
il giorno più corto si accinge a cacciarla,
mentre io ti guardo,
così, come ti guardano gli angeli.
Non serve un dio
Dalla bocca del vecchio, cola un filo di vita,
piano sgocciola, denso, su una spilletta appuntata.
La tua bussola vecchia e ammaccata
più non indica rotte per un porto sicuro,
e ritorta e bislacca di te risulta la scia,
tra le onde battenti dei passi in burrasca.
Tremolanti e malferme le tue mani nodose.
È che più non trattengono così tante e nuove carezze,
ma non c’è guancia, né capo, sui cui tu possa posarle
e sogni il volo di un angelo che ti rivesta di piume.
Il tuo orgoglio oggi è in svendita, per un gesto di affetto.
Al tuo orecchio educato a decifrare parole,
ignoto è il caos digitale dei troppi suoni moderni,
e la tua rabbia, impotente, per il fastidio rivolgi
al picchiettio furioso, che il tempo più non si perde,
a scambiarsi la vita, con la melodia della voce.
Dalla tua pelle, dai pori, odore stantio
di vecchi androni oscurati, di soffritti bruciati,
della tua solitudine, sale e ristagna,
sopra solchi d’aratro e cespugli di ciglia.
Ma se mi fermo e ti guardo, se ti osservo per bene,
vedo nel fondo un po’ opaco dei tuoi occhi di vetro,
il desiderio non scritto, di un altro Bianco Natale,
seppur fosse uno solo!
Tra i cento dei che nei secoli l’uomo ha adorato,
tra i cento dei, adesso, io, mi chiedo:
quale, tra i tanti, risponde di questo,
quale tra voi, lo ha concepito?
Nascere vecchi e morire bambini,
non serve un dio, per capire che è giusto.
Lo sguardo dell’Allodola
Ala di corvo e luce, il mio cimiero,
unico usbergo che calzo a capo eretto,
ciliegie rosse, come il mio sangue, ad ornamento,
rosso carminio, mai mescolato al fango nero delle risaie;
e sono livide le mie rose,
come il clangore delle sacre Jinkai degli Yamabushi,
spettri di bruma gelida, lampi, di lame forgiate.
Qualcuno mi chiama Michico, ma io sono l’Allodola
e di fiori e di frutti è fatta la mia Casa.
Con essa copro il mio sguardo e il mio fatale inganno:
preda io mi rivelo e col mio canto attiro, dall’alto del mio volo,
letale attrice come morta, a precipizio cado,
fino a sfiorare il suolo, per poi risorgere, come un prodigio.
Ch’io non lo veda, spavaldo, creda il nemico!
come un sussurro la mia katana, saprà trovare, curva,
la strada dritta per il suo cuore e solo allora,
nel vuoto gelo dei miei occhi, egli potrà morire.
Scorre la vita mia, nell’alveo verde del Bushido,
sempre pronta alla morte, per padroneggiar la Via,
donna di carne bianca, in mondo d’uomini.
Per la loro arroganza, perfetta Nemesi.
雲雀のチラ見 – Hibari no Chirami
Neanche io
E quando le mie orecchie
il suono avrà riempito dell’ignota melodia
che più di ogni altra ogni creatura teme
ed al cantar del gallo
o nell’aria calda di un meriggio
o nella fresca notte, dopo l’amore,
l’ultimo angelo avrà posato i piedi sul mio petto,
io sarò uno tra i tanti, e son miliardi,
che già conoscono il Segreto,
quello Assoluto e meglio custodito.
In quel momento non vi aspettate amici miei
che io per voi faccia cadere il velo.
La luce o il buio là dietro, lassù, oppur là in fondo?
Nemmeno io avrò bocca, o lingua, o per ripicca voglia
e vi lascerò nel dubbio dolce della vita,
neanche io vi porterò risposta.
Lunghe file di stoppie nel campo, ordinate
sono ciò che resta delle anime in viaggio,
ostie, frammenti di silenzio colmi di vuoto,
senso, alla purezza della mia vertigine.
Rime d’altri tempi
Questa notte dentro un sogno
è venuto a trovarmi il mio amico,
sempre allegro, sorridente
figaccione, elegante
questa notte dentro un sogno
è venuto a trovarmi il mio amico,
e giù istrioniche battute
baciamani e grandi risate
questa notte dentro un sogno
è venuto a trovarmi il mio amico,
ma al telefono al mattino
mi hanno detto che lui non c’è più
me lo immagino seduto,
alla cloche mentre chiede alla torre,
su che pista si deve portare,
il permesso per poter decollare
la sua anima rombante
il suo io abbacinante
il suo essere roboante,
nel dolore non potevan restar
questa notte dentro un sogno
è venuto a trovarmi il mio amico,
e io spero, che sempre amico,
ogni tanto vorrà ritornare.
Unico
Unico
L’ho sempre pensato
L’ho anche creduto
Ora so che mi sono sbagliato
Solo uno tra tanti
Come una ragazza in punta di piedi, vita
sei passata.
Le stanze dei ricordi
Le stanze dei ricordi hanno porte di luce,
pareti di sguardi soffitti di parole,
sono dipinte di suoni,
dell’eco di voci del profumo dei nomi.
Le stanze dei ricordi hanno chiavi speciali
a volte condivise, a volte private,
sono piene di sole, ma anche di sale
che brucia, per dar sapore alle rose.
Le stanze dei ricordi, sono piene.
Ricordami se vuoi, in quel granello di sale,
che ha dato sapore al nostro vivere assieme.